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Come adottare lo smart working in azienda

Le cose da fare e da sapere per implementare il vero smart working

Enrico Pacassoni - Taskomat
Smart working
Implementare lo smart working in azienda è un processo piuttosto lungo. Non si cambia paradigma lavorativo dall’oggi al domani, così come non si cambiano le proprie abitudini dall’oggi al domani. Sono necessari nuovi processi, nuove motivazioni e una nuova terminologia. Per fare smart working sul serio le aziende devono abbandonare ogni retaggio dell’era industriale, come ad esempio il cartellino da timbrare (fisico o digitale che sia), e abbracciare una filosofia di gestione basata solo su obiettivi e risultati, non su fasce orarie di lavoro. In questo articolo analizziamo in dettaglio cosa significa adottare lo smart working in azienda, sia dal punto di vista del datore di lavoro, sia dal punto di vista del lavoratore.

 

 


Indice dei contenuti

 

 

Cosa significa adottare lo smart working

Adottare lo smart working in azienda non significa soltanto permettere ai propri dipendenti di lavorare da casa, significa aderire a un nuovo paradigma di esecuzione, organizzazione, gestione e valutazione del lavoro.

In queste pagine abbiamo spesso parlato di come smart working e remote working siano due concetti diversi, seppure in parte sovrapponibili, e di come ultimamente questi due termini vengano utilizzati in maniera impropria.

Il remote working (o telelavoro) è semplicemente l’atto di lavorare da casa, o da qualsiasi altro punto remoto rispetto l’ufficio - ad esempio un coworking, una piscina, una caffetteria. Lo smart working (come abbiamo spiegato bene nell’articolo Smart working: cos’è e come sta andando il lavoro agile in Italia) è invece una nuova modalità di organizzazione del lavoro, in cui i dipendenti possono decidere autonomamente spazi e orari di lavoro, possono gestire il proprio lavoro con autonomia e responsabilità, con lo scopo di raggiungere un obiettivo aziendale condiviso - e non più coprire un monte ore fisso.

Come si può comprendere da quest’ultimo paragrafo, remote working e smart working non hanno molto in comune. L’unico tratto che li accomuna è appunto il lavoro a distanza, ma mentre per il remote working si tratta di una prerogativa assoluta (altrimenti non parleremmo appunto di lavoro da remoto), per lo smart working è semplicemente una comodità per il lavoratore. Esatto, perché si può benissimo fare smart working anche dalla propria postazione in ufficio.

Se quindi ad una prima valutazione l’idea di implementare lo smart working in azienda risulti difficile per via della distanza fisica, la realtà è che le implicazioni dello smart working sull’operatività e sulla gestione aziendale sono ben più profonde e pervasive del semplice atto di far lavorare da casa i propri dipendenti.

 

Smart working per le PMI di servizi

Alla luce di quanto detto nelle ultime righe, possiamo comprendere che per una corretta implementazione dello smart working in azienda sia necessario rivedere un po’ tutti i processi operativi e di controllo di gestione.

Come abbiamo accennato in precedenza, in un contesto di smart working non è più importante coprire un orario specifico, né occupare una data postazione: ciò che è importante è il raggiungimento di un obiettivo condiviso, se questo obiettivo sia stato perseguito dalle 9 alle 17 in ufficio o dalle 16 alle 23 in uno chalet… beh, poco importa.

Per le grandi aziende abituate a lavorare in silos informativi e per cui il lavoro 9/17 è qualcosa che contribuisce a costruire l’identità dei lavoratori, effettuare lo switch allo smart working può risultare estremamente traumatico per diverse ragioni, tra cui:

  • Lavorare in silos informativi in cui ogni reparto non segue direttive generali rende difficile la condivisione di informazioni e di processi, fondamentale per operare in regime di smart working;
     
  • Spesso i lavoratori annettono al proprio senso di identità personale il proprio status lavorativo. Switchare verso un modello più flessibile, in cui non esiste più un contesto qualificante che fornisce un'identità (come appunto l’ufficio) ma solo degli obiettivi da raggiungere, può essere molto destabilizzante;
     
  • Nelle grandi aziende spesso il management non ha il minimo interesse a condividere obiettivi aziendali su larga scala, come spesso non ha interesse a concedere ai propri lavoratori autonomia decisionale su modalità operative;
     
  • Le grandi aziende spesso hanno veri e propri protocolli operativi scolpiti sulla pietra, che si traducono in procedure rigide e processi macchinosi. In un contesto del genere è pressoché impossibile pensare allo smart working.

Spesso e volentieri per le PMI di servizi queste ragioni non valgono, col risultato che è estremamente più semplice implementare un modello di smart working all’interno di queste organizzazioni.

Per “PMI di servizi” intendiamo agenzie grafiche e pubblicitarie, studi tecnici o professionali, web agency, aziende di consulenza... in definitiva intendiamo tutte quelle aziende con un numero di dipendenti limitato, ma che erogano servizi ad alto valore aggiunto impiegando soltanto il proprio tempo e la propria competenza. 

Stiamo quindi parlando di aziende piccole, in cui l’amministratore è spesso anche la prima risorsa operativa, che nella maggior parte dei casi sono nate da poco, hanno procedure ancora in via di definizione e sono già votate alla condivisione di responsabilità, obiettivi e processi.

Inoltre, i dipendenti di questo tipo di aziende sono spesso professionisti a tutto tondo, dotati di una mentalità di crescita, che amano fare progressi sul lavoro e che sposano la vision aziendale. 

Per organizzazioni come queste, che basano la propria offerta di valore sulle proprie competenze e sul tempo investito su ciascun progetto, è davvero molto semplice ragionare in termini di smart working.

 

Adottare lo smart working: parliamo di OKR e filosofia ROWE

Il primo passo per adottare lo smart working in azienda consiste nel comprendere che il lavoro va organizzato per obiettivi e non per fasce orarie. A un datore di lavoro, o ad un manager, dovrebbe interessare la qualità dell’outcome finale, non l’orario in cui il lavoro viene eseguito né tantomeno il luogo.

Si potrebbe pensare che queste siano considerazioni banali. In realtà, guardando al quadro generale, è vero l’esatto opposto.

Secondo Gary Hamel, professore della London Business School definito da BusinessWeek “il più grande esperto di strategia di business al mondo”, il management attuale è una tecnologia superata da tempo. Nel suo libro del 2007 “The Future of Management”, paragona le modalità di gestione attuali al motore a scoppio, ovvero una tecnologia che ha smesso di evolversi da anni: “la maggior parte dei sistemi e delle tecniche del moderno management - spiega - fu inventata da persone nate e formate nel XIX secolo, prima della Prima Guerra Mondiale”. Hamel non propone altre soluzioni se non una radicale revisione di questa tecnologia ormai obsoleta: se questo era vero nel 2007, lo è ancor di più nel 2020.

Una tecnologia che ci può aiutare in questo senso è quella degli OKR.

 

Cosa sono gli OKR?

Abbiamo appena detto che per adottare lo smart working in azienda occorre innanzitutto organizzare il lavoro per obiettivi. In questo senso, è doveroso prendere in considerazione il framework OKR (acronimo inglese che sta per Objectives and Key Results), una metodologia di gestione utilizzata da Google, Twitter, LinkedIn, Spotify e altre aziende digitali di altissimo profilo.

Il concetto di OKR è stato sviluppato per la prima volta da Andy Grove negli anni '70, quando era presidente di Intel. L'idea è diventata popolare quando John Doerr, collaboratore di Andy Grove presso Intel e in seguito venture capitalist e primo investitore di Google, ha introdotto il concetto ai fondatori del celebre motore di ricerca Larry Page e Sergej Brin, che lo hanno adottato per far diventare Google quel che poi è diventato.
 

Come funzionano gli OKR

Ogni OKR è tipicamente composto da 2 parti:

  • la "O", che si riferisce ad Objective (obiettivo) e che rappresenta un obiettivo rilevante e stimolante per l’organizzazione e per il professionista
  • la "K” e la “R", che si riferiscono invece a Key Results (risultati chiave), cioè a numeri e dati oggettivi legati all’obiettivo stesso

Per cui ogni OKR è composto sia dall’obiettivo che si intende raggiungere, sia dai risultati chiave che segnano il percorso verso il raggiungimento dell’obiettivo. Vediamo ora un paio di esempi per fissare meglio il concetto. Per esempio, assumiamo che l’obiettivo sia:

  • Aumentare il profitto del 20%

I risultati chiave potrebbero essere:

  • Ridurre i costi di produzione del 10%
  • Aumentare le vendite del 5%
  • Implementare il nuovo software CRM entro agosto 2021

In parole povere, gli OKR sono uno strumento che aiuta le organizzazioni a raggiungere obiettivi attraverso azioni specifiche e misurabili e un monitoraggio costante dei progressi individuali e collettivi. A questo si aggiunge la necessità di una comunicazione capillare ed efficace. Si potrebbe dire che gli OKR rappresentano per le aziende ciò che gli obiettivi SMART rappresentano per i singoli professionisti.

Se vuoi approfondire il framework OKR, puoi leggere il nostro articolo OKR: cosa sono e come implementarli. Quella degli OKR è una metodologia che ha molto da spartire con la filosofia ROWE, che porta all’estremo quanto visto sinora.

 

Cos’è la filosofia ROWE

Le aziende di tipo ROWE sono frutto delle idee di Cali Ressler e Jody Thompson, due ex direttori delle risorse umane di Best Buy, la catena americana di negozi di elettronica di consumo.

ROWE è un acronimo che significa results-only work environment, ovvero “ambiente di lavoro in cui contano solo i risultati”, infatti in un’azienda ROWE le persone non hanno orari, vanno al lavoro quando vogliono e non devono essere in ufficio a nessuna ora in particolare. Ciò che devono fare è solo svolgere il proprio lavoro: come lo fanno, quando e dove dipende solo da loro. L’unica cosa che conta, appunto, sono i risultati.

Secondo la filosofia ROWE, "management" non significa andare in giro a vedere se le persone sono nei propri uffici, significa creare le condizioni affinché le persone svolgano il loro lavoro al meglio.

Un altro punto fondamentale è che quasi mai, nelle aziende ROWE, la retribuzione è legata ai risultati. La retribuzione deve garantire una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, non deve costituire il motivatore principale per migliorare le performance. Creare dei piani retributivi sulla base dei risultati può creare scompensi nei lavoratori e instillare l’idea che tutto dipenda dai soldi e non dalla qualità del lavoro.

Alcuni principi fondamentali di un’azienda ROWE sono:

  • Le persone di ogni livello sono esentate dal fare qualsiasi attività che rappresenti una perdita del loro tempo, di quello dei clienti o dell’azienda
  • I dipendenti hanno la libertà di lavorare nel modo in cui vogliono
  • Ogni riunione è facoltativa
  • Non esistono orari di lavoro

In definitiva, secondo la filosofia ROWE, per poter lavorare al meglio delle proprie potenzialità, i lavoratori devono essere liberi. Liberi di scegliere orario, luogo e modalità di lavoro preferita e liberi dal giogo manageriale che utilizza la carota del bonus in denaro con lo scopo di farli rendere al meglio. In un’azienda ROWE, in definitiva, non esistono dipendenti: tutti i lavoratori sono partner. E i partner, per definizione, non dipendono da nessuno: hanno bisogno di dirigere da soli le proprie vite.


 

I 3 pilastri dello smart working in azienda: autonomia, padronanza e scopo

Finora abbiamo visto come si può adottare lo smart working in azienda dalla prospettiva del datore di lavoro, o del manager. Abbiamo detto che è necessario organizzare il lavoro per obiettivi e lasciare libertà ai propri dipendenti. Ma entrando più nel merito, in cosa consiste questa libertà? E perché un dipendente libero dovrebbe comunque sentire il bisogno di lavorare, nonostante non ci sia nessuno a controllarlo?

La risposta a quest’ultima domanda è davvero molto semplice: perché è motivato a farlo. O ancora meglio, è intrinsecamente motivato a farlo. Approfondiamo questo concetto nell’articolo Il paradigma motivazionale nell’era dello smart working.

Come accennato in precedenza, per fare in modo che lo smart working funzioni, è necessario che i lavoratori siano professionisti esemplari, animati da una solida mentalità di crescita, da sincero entusiasmo e dalla voglia di imparare cose nuove, migliorare se stessi e il nostro mondo.

Tuttavia, questa tipologia di atteggiamento non emergerà mai in contesti lavorativi in cui il lavoratore è costantemente vessato da procedure e da un management stantii, in cui l’unica ricompensa per il lavoro svolto pare essere lo stipendio a fine mese. 

Per essere sicuri di adottare lo smart working in maniera efficace, è necessario fondare il rapporto di lavoro su 3 pilastri fondamentali: autonomia, padronanza e scopo. Senza questi 3 elementi di base non esiste - e non esisterà mai - smart working alcuno. 

 

Autonomia

“Abbiamo sempre sostenuto che il denaro è qualcosa che crea perdite. Se non le pagate abbastanza, potete perdere le persone. Ma, aldilà di questo, i soldi non sono un fattore motivante. Ciò che conta sono altri fattori.” Queste parole sono di Mike Cannon-Brookes, miliardario australiano fondatore della società di software Atlassian.

In Atlassian, come in molte altre aziende proiettate al futuro, stanno effettivamente scoprendo quali sono questi fattori essenziali. E il primo tra tutti è l’autonomia, in particolare l’autonomia in quattro aspetti dell’attività lavorativa: che cosa le persone fanno, quando, come e con chi. Ovvero: autonomia nel lavoro, autonomia nell’orario, autonomia nella tecnica, autonomia nella selezione del team.
 

Autonomia nel lavoro

L’autonomia nel lavoro si può descrivere semplicemente così: occorre lasciare decidere ai singoli lavoratori le attività da fare per completare un certo tipo di progetto, o molto più semplicemente, come disse il designer George Nelson ai propri subordinati: “Decidete voi ciò che farete”. L’autonomia nel lavoro è da sempre un fattore decisivo per la capacità creativa e i bravi leader lo sanno molto bene.
 

Autonomia nel tempo

Come abbiamo visto, i lavoratori di un’azienda ROWE possono decidere in autonomia quando lavorare. La cosa più interessante è che questi dipendenti dichiarano migliori rapporti con familiari e amici, maggiore fedeltà all’azienda, più concentrazione ed energia. Alcuni test hanno inoltre rilevato che in questo modo la produttività media aumenta del 35% e il turnover aziendale è più basso del 3,2%. 

Secondo Anthony Ressler, imprenditore e miliardario americano, “In passato il lavoro era definito principalmente in base al tempo impiegato e solo secondariamente in base all’ottenere risultati. Dobbiamo cambiare questo modello. Non importa il settore a cui appartenete, è tempo di disfarsi di note di ritardo, cartellini orari e idee sorpassate dell’età industriale”.

Se non siamo padroni del nostro tempo, è praticamente impossibile avere autonomia nella nostra vita: ecco perché l’autonomia nell’orario di lavoro è fondamentale per avere una forza lavoro energica e motivata.
 

Autonomia nella tecnica

Essere autonomi nella tecnica di lavoro significa decidere in autonomia in quale modo affrontare il proprio compito, senza la necessità di seguire rigide procedure o determinate tecniche.

Per esempio, prima di essere acquistata da Amazon, l’azienda di ecommerce Zappos ha adottato questo approccio con il servizio clienti. I manager di Zappos hanno destrutturato tutte le procedure relative al servizio clienti e lasciato completa autonomia decisionale ai singoli operatori. I risultati sono stati strabilianti: il turnover degli operatori è diminuito drasticamente, così come il numero di reclami e di resi.
 

Autonomia nella selezione del team

Questa è una delle ragioni principali per cui le persone scelgono di diventare imprenditori: poter scegliere in autonomia le persone con cui collaborare. 

Il lavoro di squadra è una parte fondamentale del lavoro di oggi ed è normale voler essere autonomi nella scelta dei propri collaboratori: una squadra affiatata lavora meglio, con più entusiasmo, e porta risultati migliori.

Sebbene l’autonomia nel team sia il meno sviluppato dei quattro aspetti che abbiamo visto, vaste ricerche hanno mostrato che le persone che lavorano in team autorganizzati sono molto più soddisfatte di coloro che lavorano in team ereditati o decisi dall’alto.

 

Padronanza

Per padronanza si intende il desiderio di migliorare sempre più in qualcosa che per noi è importante. Acquisire la padronanza di una determinata skill è infatti un’importante componente della motivazione intrinseca

Risolvere problemi complessi (come quelli che ci sottopone il business odierno) richiede una mente curiosa e la volontà di sperimentare un proprio metodo per arrivare a nuove soluzioni. In altre parole, occorre essere estremamente coinvolti in ciò che si fa, altrimenti il rischio è quello di non perseguire la padronanza. 

Se infatti è l’autonomia che conduce al coinvolgimento, è il coinvolgimento stesso che conduce alla padronanza: non ha infatti senso cercare di migliorare costantemente se stessi in una disciplina in cui non si è coinvolti affatto. Possiamo quindi dire che i momenti in cui siamo estremamente coinvolti in ciò che facciamo sono i momenti in cui facciamo crescere la nostra padronanza. Ma questi momenti hanno un nome ben preciso, e ne abbiamo già parlato in questo blog: stiamo parlando dello stato di flusso.
 

Le tre leggi della padronanza
  • La padronanza è un atteggiamento mentale, ovvero dipende esclusivamente dalla nostra mente. Per acquisire padronanza in una determinata abilità, occorre avere la capacità di considerare le proprie abilità non come finite, ma come infinitamente migliorabili, occorre avere quindi una mentalità di crescita.
     
  • La padronanza è fatica, ovvero richiede impegno, costanza, grinta ed esercizio volontario. Per acquisire padronanza sul lungo periodo occorre essere disposti a lavorare sodo e magari ottenere solo piccoli miglioramenti per anni. 
     
  • La padronanza è un asintoto, ovvero non può mai essere raggiunta completamente. Questo è un concetto sia affascinante sia frustrante, ma la realtà è che il piacere è più nella ricerca che nel conseguimento.

 

Scopo

I primi 2 pilastri dello smart working, autonomia e padronanza, sono essenziali. Tuttavia, per un giusto equilibrio abbiamo bisogno di un terzo pilastro, lo scopo, che fornisce un contesto agli altri due. 

Le persone profondamente motivate - per non parlare di quelle più produttive e soddisfatte - legano i propri desideri a una causa più grande di se stesse, in altre parole per essere maggiormente motivati, produttivi e soddisfatti abbiamo bisogno di uno scopo più grande di noi (da qui l’importanza per un dipendente di identificarsi con la vision e la mission dell’azienda).

Sia i lavoratori che le aziende iniziano ad avvertire il bisogno di massimizzare lo scopo, oltre che il profitto. Secondo Mats Lederhausen, investitore di McDonald, “sempre più stakehloder vogliono che le aziende abbiano uno scopo che vada al di là del loro semplice prodotto”.

La motivazione del mero profitto, per quanto potente, può essere uno stimolo insufficiente sia per le aziende che per i singoli individui. Una fonte di energia ugualmente potente, che spesso è stata però bollata come irrealistica, è ciò che potremmo definire lo “scopo motivante”. 

Questo “scopo motivante” si esplica nel business principalmente in tre modi:

  • in obiettivi che usano il profitto come mezzo per raggiungere uno scopo;
  • in una comunicazione interna votata al benessere collettivo più che agli interessi personali
  • in politiche aziendali che permettono alle persone di inseguire lo scopo a proprio modo.


 

La valutazione del lavoro nello smart working

Abbiamo visto finora l’impatto che può avere lo smart working in azienda sia dal lato del datore di lavoro (o management) - ovvero il framework OKR e la filosofia ROWE - sia dal lato della forza lavoro - ovvero i concetti di autonomia, padronanza e scopo.

Parlando di OKR, questo framework è un ottimo strumento di organizzazione e gestione del lavoro, ma non può essere uno strumento di valutazione dei dipendenti. 

Affinché i dipendenti si sentano al sicuro nell'impostare OKR ambiziosi, devono essere sicuri di non subire conseguenze negative in caso di fallimento. Infatti, va benissimo raggiungere solo il 60-70% degli OKR, in quanto se la tua organizzazione raggiungesse il 100% dei suoi OKR, è probabile che siano troppo facili e che si debbano fissare obiettivi più ambiziosi.

Per cui, occorre impostare altre KPI in grado di misurare la qualità del lavoro e di generare insights significative su come migliorare ulteriormente. Queste KPI devono informare sia il management sul livello di raggiungimento degli OKR, sia il lavoratore sulle aree in cui è necessario migliorare.

Queste KPI sono essenzialmente 3: Efficacia, Efficienza, Puntualità.

 

Efficacia: fare la cosa giusta

Valutare l’efficacia di un lavoratore significa valutare la sua autonomia nel lavoro, più precisamente la sua autonomia decisionale. Essere efficaci significa sostanzialmente essere in grado di fare sempre la cosa giusta. 

Se il dipendente, una volta ricevuto un obiettivo, è in grado di preparare un piano di lavoro, pianificare le attività ed eseguirle quotidianamente, significa allora che ha un’alta efficacia. Se invece crea delle attività che poi cancella, fa una pianificazione ma poi lascia indietro alcuni task, significa invece che può migliorare.

 

Efficienza: fare le cose nel modo giusto

Valutare l’efficienza di un lavoratore significa valutare la sua autonomia tecnica e la sua padronanza. Essere efficienti significa infatti essere in grado di fare le cose nel modo migliore, dove migliore non ha una valenza assoluta, ma relativa alla persona e al progetto considerati.

Per cui, in ultima analisi, valutare l’efficienza di un lavoratore significa valutare il tempo che impiega a fare le singole attività. Più è ampio lo scarto fra la stima e il tempo effettivo, più è alta l’efficienza del lavoratore. Se un’attività viene stimata due ore e viene completata in un’ora e un quarto, significa che il lavoratore è stato molto efficiente in quella specifica attività, ovvero ha maturato padronanza e un ottimo livello di autonomia tecnica. Se invece la stima era di un’ora e il tempo effettivo di un’ora e mezza, significa che ci sono discreti margini di miglioramento.

 

Puntualità: rispettare gli obiettivi e le scadenze

Valutare la puntualità di un lavoratore non significa controllare che timbri il cartellino prima delle 9 di mattina. Significa semplicemente valutare la sua capacità di raggiungere un obiettivo (ad esempio completare un lavoro) entro la deadline stabilita.

La puntualità è la KPI che serve a misurare l’autonomia del lavoratore in termini di tempo e la sua affinità con lo scopo aziendale: serve a valutare la capacità di lavorare sotto pressione, la capacità di sapersi gestire e la capacità di rimanere motivati lungo il percorso verso l’obiettivo.


 

Analisi retrospettiva: uno strumento fondamentale

Alla luce di quanto visto finora, possiamo dire che in ogni progetto è importante, se non fondamentale, fare analisi di retrospettiva a cadenza regolare per valutare efficacia, efficienza e puntualità del lavoratore. L’analisi retrospettiva non ha la funzione di dare giudizi negativi, al contrario, la sua funzione è evidenziare in quali aree è stato più performante e in quali meno, con lo scopo di aumentare la sua fiducia e consapevolezza.


 

Smart working & employee engagement

In questo contesto è doveroso fare un piccolo accenno al concetto di employee engagement, senza aver la pretesa di essere esaustivi in quanto è un concetto talmente ampio che meriterebbe un articolo a sè.

L’employee engagement è un approccio alla gestione dei rapporti di lavoro che ha l’obiettivo di creare le giuste condizioni affinché tutti i membri di un'organizzazione si sentano motivati a dare il loro meglio ogni giorno. 

Si tratta quindi di un approccio imprescindibile per le aziende che vogliono adottare seriamente lo smart working: senza employee engagement non può infatti esserci smart working. O meglio: visto che l’employee engagement può essere misurato, tanto più è alto e tanto più è semplice adottare lo smart working.

Infatti, un’azienda che adotta una gestione per obiettivi, che si ispira quanto più possibile alla filosofia ROWE, che concede ai dipendenti diversi livelli di autonomia, che li agevola nel perseguire padronanza e che li rende partecipi di uno scopo collettivo è un’azienda che ha un altissimo employee engagement.

 

Migliorare l’employee engagement con la gamification

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, le 3 KPI fondamentali per valutare un lavoratore in termini di smart working sono efficacia, efficienza e puntualità.

Mentre l’analisi retrospettiva è lo strumento che consente al manager e al lavoratore di incontrarsi a cadenza regolare per discutere di come migliorare le proprie performance, lo strumento migliore per stimolare quotidianamente il lavoratore è quello della gamification.

La psicologia comportamentalista ci dice che è molto importante applicare un rinforzo positivo ad un comportamento che ci auguriamo di ripetere. Tradotto, se vogliamo modellare il nostro comportamento (o, in questo caso, quello dei nostri dipendenti) è più efficace un premio dopo un comportamento positivo che una punizione dopo un comportamento negativo.

Premesso ciò, la gamification può aiutarci fornendo rinforzi positivi quotidiani al lavoratore che migliora la sua efficacia o la sua efficienza, fornendo rinforzi positivi settimanali al lavoratore che migliora la sua puntualità, e così via. Organizzando la settimana come una serie di sfide mettiamo il lavoratore nella condizione migliore: in caso di superamento della sfida, otterrà un riconoscimento (anche virtuale), in caso contrario semplicemente non succederà nulla.

 

Da ricordare

Abbiamo visto come implementare lo smart working in azienda non sia un processo che dura 2 giorni, nè tantomeno può avvenire per mezzo di un decreto legge: per adottare lo smart working come reale modello organizzativo e operativo, le aziende devono operare delle scelte ben precise.

La prima di queste scelte consiste nell’organizzare il lavoro per obiettivi - o meglio ancora consiste nell’adottare il framework OKR (Objectives & Key Results) per l’organizzazione e la gestione del lavoro. La seconda consiste nell’avvicinarsi quanto più possibile alla filosofia di gestione ROWE, ovvero results-only work environment, secondo cui l’unica cosa importante per un’azienda dovrebbero essere i risultati, non le modalità attraverso cui vengono conseguiti.

Ne consegue una pesante revisione di tutto il sistema di controllo manageriale, che secondo i più brillanti pensatori di business inizia ad essere una tecnologia obsoleta e ad avere gli anni contati. 

Per quanto riguarda l’altro lato della medaglia, ovvero i lavoratori, se vogliono prosperare nell’era dello smart working è necessario che acquisiscano una solida mentalità di crescita, che abbandonino l’idea del lavoro come uno status e che invece si impegnino giorno dopo giorno per migliorare costantemente se stessi.

Per fare in modo che ciò avvenga, le aziende devono garantire ai propri lavoratori assoluta autonomia decisionale, devono agevolarli nel conseguire padronanza delle loro abilità e devono trasmettere a tutti un forte senso di scopo.

La valutazione del lavoratore da parte del datore di lavoro o del manager non deve basarsi sul raggiungimento degli obiettivi prefissati, perché altrimenti potrebbe rivelarsi controproducente. Ciò che va valutato, nell’ambito di incontri regolari di retrospettiva, sono le 3 KPI fondamentali dello smart working: efficacia, efficienza, puntualità

In questo contesto, la gamification può aiutare molto sia l’impresa sia il lavoratore in quanto può fornire il supporto cognitivo per fare in modo che si ripetano comportamenti virtuosi, ad esempio fornendo un rinforzo positivo ogni volta che il lavoratore supera una sfida con oggetto il miglioramento delle sue performance.

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